Non sono molto brava in cucina ma devo pur sempre mangiare qualcosa. Mi vesto in fretta e mi dirigo verso il mercato del mio paese, essendo un paese piccolo ipotizzo di trovare molte meno persone rispetto a un centro commerciale. È un mercato semplice, con pochi ambulanti che offrono prodotti a km zero. L’accostamento lockdown e mercato mi fanno pensare subito a uno dei miei viaggi in Cina, un flashback e la mia mente ripercorre quel giorno.
Ricordo Andrea, Andrea Paolo Milano mio mentore, indimenticabile e indimenticato amico, che mi scruta con un sorriso tra il sornione e il preoccupato.
“Sei certa di voler andare?”
“Ovviamente, anzi non vedo l’ora! Come sai, per me la parte emozionante e fondamentale del viaggio è immergersi nella cultura del luogo.”
“Lo so, lo so, viaggiare con te è sempre impegnativo!”
“Le classiche mete turistiche non mi attirano, io voglio scoprire le tradizioni, incontrare le persone, andare alla ricerca dei piccoli negozietti, entrare nelle farmacie per scoprire i medicamenti locali, girovagare nei mercati. E chi viaggia con me non deve essere troppo schizzinoso! Ricordi quel ristorante talmente tanto “caratteristico” che le mani si appiccicavano al tavolo?”
“E come non ricordarlo! Non ho mai conosciuto un’altra persona altrettanto spericolata divoratrice di cibo indigeno e di accostamenti bizzarri!”
Ci immergiamo nel folle, caotico e assolutamente privo di regolamentazione traffico della superstrada. Automobili, autotreni, motociclette con una, due, tre, a volte anche quattro persone in sella, furgoncini così trasbordanti di merci da sfidare ogni legge di gravità, sfrecciano a destra e sinistra.
Lasciamo alle spalle i grattacieli e le luci mirabolanti della metropoli e ci addentriamo nella Cina rurale. Chilometri e chilometri di spazi aperti, disabitati, piatti. È incredibile la vastità degli spazi cinesi, da vertigini. Poi, improvvisamente, come un fungo cresciuto nella notte, un nuovo agglomerato urbano.
Grattacieli e catapecchie, sopraelevate e strade sterrate, rivoli di acqua putrida, uomini in abiti eleganti e altri in abiti tradizionali. Tutto si fonde e si confonde.
Ci dirigiamo in fondo alla strada, guadagnando a fatica spazio tra la folla, dove una luccicante insegna a caratteri cinesi indica la nostra meta, un wet market.
“Si chiamano wet market ossia “mercato bagnato” perché hanno il pavimento bagnato dall’acqua e dal ghiaccio usati per tenere in fresco le merci o lavare i banconi dopo la macellazione” mi spiega Andrea, che mi stupisce ogni volta per la sua cultura e conoscenza di ogni cosa del mondo.
“Questi luoghi svolgono un ruolo centrale nella vita sociale cinese, offrono cibi freschi a prezzo conveniente, ma sono anche luoghi di incontro e di relazioni, dove le tradizioni si tramandano e dove i venditori danno informazioni sulle proprietà benefiche dei diversi tipi di carni.”
Mi avvicino ed entro, con curiosità, ma anche, devo ammetterlo, con sospetto.
Tutti i miei cinque sensi vengono investiti, travolti da un’onda di colori e odori.
I colori dei prodotti, sapientemente esposti nei banchetti, sono brillanti, vividi, sembra di entrare in un quadro di Mirò.
Gli odori sono agri e pungenti, è impossibile descrivere tutti quelli che pervadono il posto, anche se i tipici olezzi di sangue e di soia risultano certamente i più intensi. Odori per stomaci forti.
Assaggio qualche boccone di cibo che mi viene offerto, il gusto è per lo più agrodolce anche se a volte mi avvolge una sensazione di piccante.
Uomini e donne si affrettano tra i venditori, toccano, assaggiano, selezionano, comprano.
Ragazzini corrono a piedi scalzi tra gli alimenti, mangiano ravioli, spiedini di scarafaggi fritti, lingue di anatra. Leccornie. Mi guardano e ridacchiano, toccano i miei vestiti, io sono una divertente novità, non è consueto per loro vedere una donna occidentale.
Un vociare confuso in una lingua gutturale riempie l’aria. Ascolto e penso che in fondo tutto il mondo è paese, siamo in Cina ma potremmo essere in un mercato di Napoli o di Palermo, con la confusione delle grida dei venditori che si accavallano.
Mi colpiscono la varietà di animali vivi racchiusi nelle loro gabbie o in bacinelle d’acqua, tartarughe, uccelli, serpenti, scorpioni, roditori e le altrettante numerose parti di animali macellate disposte in mucchi sistemati a forma di piramide, teste di gallina, zampe di vitello e di maiale, pezzi di agnello ma anche di coccodrillo o di scoiattolo.
Poi è un attimo, un grido, un verso primordiale.
Mi volto e intravedo un gesto repentino, preciso. Una testa mozzata, sangue che cola, viscere per terra, feci. L’avventore ha scelto il suo pasto. Xièxiè.
Allora non sapevo cosa stavo osservando, adesso lo so. Ho guardato in faccia il covid 19.